“Adua” di Igiaba Scego
Di Fiorella Palomba
Premessa
Ho letto Adua nel gruppo di lettura organizzato dalla libreria Nuova Europa di Roma. Una bella pensata: ogni partecipante acquista un libro a sorpresa e incontra il gruppo per tre volte, l’ultima con l’autore. Una presentazione capovolta: il lettore presenta all’autore i propri pensieri, note e recensioni, l’autore ascolta.
Ho letto il libro proposto, Adua di Igiaba Scego, più volte per due ragioni fondamentali. La prima perché ritengo doveroso, in un gruppo di confronto, leggere con attenzione, la seconda per cogliere lo stile letterario.
Il romanzo
Nell’opera si alternano le storia di Adua e del padre Zoppe intrecciate in tempi e luoghi differenti, legate dal tormentone “paternale” che, come dice la parola, è il severo ammonimento del genitore. Il libro pertanto ha una struttura alternata, appunto, nella triade Adua-Zoppe-Paternale.
Adua, bambina e nomade, poi adolescente, giovane e infine donna matura con un marito- bambino, partendo dal presente, narra di sé e delle sue vicende, dei suoi sogni, dei suoi disincanti. Zoppe, ventenne somalo, traduttore per il regime fascista approda a Roma. La sua storia si snoda in un andirivieni spazio temporale che chiama in causa molti soggetti e molte “visioni” evocate dalla sua capacità divinatoria.
La scrittura
Quando leggo un romanzo pongo attenzione ai fatti narrati, ma anche e soprattutto al come sono narrati, alla scrittura, alla voce del testo ed è soprattutto per questa voce che Adua mi è piaciuto.
Ma, andiamo per ordine.
L’incipit classico ti porta in medias res, come dice Orazio e definisce la certezza del luogo: la Somalia. Parola chiave ripetuta più volte, con maestria, nei primi due capoversi.
Una Somalia amata da entrambi i protagonisti, padre e figlia, seduce il lettore soprattutto con i suoi profumi.
La nostra mente, scrive Steven Pinker, professore alla Harvard University, quando legge non vede parole, ma immagini e suoni. Io aggiungo profumi e odori.
Le frasi e i periodi sono costruiti per svelare un po’ alla volta, le storie parallele e condurre il lettore a destinazione.
Una doppia scrittura: passionale e coinvolgente, sensoriale e odorosa nel racconto che riguarda Zoppe, colma di immagini vivide, di momenti poetici; più fredda, asciutta quasi una cronaca nella storia di Adua, ma supportata da parole precise, ricercate, puntuali. Azzardo un’ipotesi: Adua prende distanza, anche nella voce del testo dalla sua triste storia?
La piacevolezza delle descrizioni, del ritmo quasi metrico delle frasi, a volte un canto, se preferite una danza, danno smalto alla storia a volte noiosa.
Nella descrizione dei luoghi, Mangalo, Mogadiscio, Roma c’è un peso differente. La Somalia è presente in modo prepotente nel romanzo, la vediamo e la annusiamo. Roma, al contrario, è appena accennata, quasi invisibile quanto il giovane Zoppe per richiesta esplicita dei suoi datori di lavoro. «Se è possibile, dovresti far di tutto per sparire», gli avevano detto e lui era diventato una “illusione ottica” scrive Scego.
Non so se di questa potente similitudine dell’invisibilità di Zoppe e di Roma l’autrice è consapevole, se è stata intenzionalmente usata. Io comunque la registro.