Presentazione di “Televisione”: l’intervento di Veronica Gentili

Pubblichiamo l’intervento di Veronica Gentili (presente sul suo blog duepuntidivista) all’incontro dello scorso 9 maggio per la presentazione del libro “Televisione” di Carlo Freccero.

Leggo il libro di Carlo Freccero “Televisione” e mi rendo conto che  la televisione commerciale ha inciso nella mia vita molto più’ di quanto io stessa potessi pensare. Le sue implicazioni sulla vita di una giovane attrice con pensieri sinistri (chiaramente anche in termini esistenziali, ma nello specifico in termini politici) sono state tripartite equamente tra le tre caratteristiche che ho appena usato per descrivermi. Come la Santa Trinità essa è infatti una e trina, composta di un  solo corpo ma con effluvi che si disperdono in maniera ipostatica su vari fronti.

Non seguendo l’ordine delle pagine del libro, scelgo di mettere a fuoco come primo aspetto quello generazionale. Pur sapendo il fastidio epidermico che questo termine tanto inflazionato ormai porta con se’, infatti, alla luce di alcune riflessioni di Freccero sugli effetti collaterali della TV commerciale sulla generazione dei trentenni, mi trovo costretta ad usarlo. 

In un momento storico in cui l’espressione “nativi digitali” è all’ordine del giorno per descrivere la nuova leva di creaturine che stanno venendo su a pane e web, cercando di capire le implicazioni, i vantaggi, le derive che tutto questo può portare, mi sono sentita tirata in causa quando nel libro compare questa frase “Solo oggi esiste una generazione che ha costruito sulla televisione la propria identità“.
Eccoci qua (“i figli che hanno avuto nella televisione una baby-sitter sollecita ed insieme trasgressiva e perversa”, come ancora ci descrive Freccero) a fare i conti oggi con il medioevo, inteso come età di mezzo, nel quale siamo cresciuti;  sospesi in mezzo tra la generazione del 68 e dintorni, eternamente protagonista grazie ad un archivio televisivo che le ha regalato l’immortalità, tramutandola in un eterno presente, e quella che si sta arrampicando attorno al traliccio della rete sin dalla culla. 

Noi, nel mezzo, siamo la generazione della nostalgia, mai stata adolescente nell’accezione ribelle e sovversiva del termine, perché troppo incantata da quell’età dell’oro, vissuta dai nostri genitori e perpetuamente celebrata dal piccolo schermo, per poterci mettere in competizione. 
Non siamo mai riusciti a creare la frattura che permette ad una generazione di stabilire i confini della propria identità e siamo rimasti attaccati ad un cordone ombelicale che ha finito per avvolgercisi intorno al collo e rischiare di strozzarci.

A maggior ragione perché, mentre in televisione scorrevano a ripetizione i peana e i riti celebrativi  in onore dei nostri padri, le ideologie si spogliavano giorno dopo giorno, come nel più squallido degli strip poker, fino a rimanere in mutande, lasciando all’intrattenimento, all’individualismo, al consumo, all’emotività da bancarella, l’arduo compito di divenire insieme goal e allenatori per la nuova generazione. 

La diretta proporzionalità tra complessi edipici e allontanamento del potere decisionale dalle politiche nazionali in favore di una dispotica oligarchia finanziaria europea (detto più semplicemente, non solo avevamo paura ma sapevamo che le nostre idee concretamente contavano poco o nulla nella realtà dei fatti) ha fatto si’ che il nichilismo s’impadronisse di noi, condannandoci al girone infernale degli accidiosi.

Del resto, mentre le ideologie nude non avevano più l’appeal per proporre alcun tipo di politica, la televisione si e’ presa cura non solo di noi malati di febbre del Sabato sera, ma si e’ anche occupata di governarci, attraverso la lungimiranza di un Berlusconi che ha subitamente previsto come la sinistra non avrebbe saputo tenere botta alla fine della Prima Repubblica e ad un mondo in trasformazione.

E qui arriviamo al secondo punto: l’essere di sinistra.
Duole dirlo, le sberle in piena faccia che abbiamo preso in questi giorni bruciano ancora, ma il trionfo paillettato dell’intrattenimento televisivo, la mutazione genetica di un popolo che, come dice Freccero, da classe si trasformava in maggioranza, abbandonando le falci e i martelli nell’illusione di sostituirli con i telecomandi, hanno lasciato la sinistra in uno stato di paralisi totale dalla quale non e’ riuscita a scuotersi per più di vent’anni.
Come i testimoni oculari che dopo aver assistito ad un delitto entrano in stato di shock e non possono testimoniare perché’ incapaci di parlare, così’ la sinistra e’ rimasta basita e muta davanti alla morte della Prima Repubblica per mano di un sistema giudiziario a suo tempo ancora efficace e di una televisione che da generalista e didattica iniziava a virare verso il consumo e l’intrattenimento.

Da quel momento in poi, quelle cellule di sinistra, disorientate e sparse, sopravvissute alla prima Repubblica, hanno compulsivamente cercato di trovarsi un nome, mediante il quale simulare un’identità omogenea, che ahimè non sono più state capaci di trovare; hanno tentato camaleonticamente di adattarsi a ciò che accadeva intorno, senza tuttavia riuscire mai davvero a capire cosa stesse accadendo, attoniti davanti ad un proletariato in poltrona di fronte al televisore, con il quale non sono più riusciti a rapportarsi.

Scrive Freccero: ” La sinistra continua ad applicare le sue categorie a un mondo profondamente cambiato, che stenta a comprendere. Questo suo disagio, questo suo straniamento, continueranno a crescere nel tempo sino ad oggi“.

Questa è la maledizione della sinistra da un certo punto in poi: essere sempre in differita. Restia al cambiamento, essa tende ad attardarsi di qualche passo, per rivolgere lo sguardo all’indietro, verso quello che era, verso una storia così pregna e così ingombrante da non poter essere lasciata alle spalle. Come se quella storia emettesse un suono ancora cosi’ forte da sporcare l’ascolto del presente, un rumore di fondo che le impedisse l’orecchio assoluto, che e’ l’unica possibilità di catturare, in tempo reale, lo spirito dei tempi.

Infine resta la terza caratteristica: essere un’attrice.
Beh, anche per ciò che concerne quest’aspetto, il libro delucida anche alcuni dilemmi con cui gli attori contemporanei hanno sostituito l’essere o non essere.
Innanzitutto, l’evoluzione della TV commerciale ha visto la soap opera essere sostituita dal Reality.
Il reality, mostro tentacolare a sei teste per qualsiasi attore degno di questo nome, ha tolto il sonno a molti di noi.

Il perché, la mediocrità, il non talento, l’assenza di contenuti venissero privilegiati come forma di spettacolo alle nostre fatiche teatrali, cinematografiche o perfino televisive che fossero, e’ stato un doloroso quesito per ciascun attore avesse faticato per migliorarsi, con l’idea che il talento o se non altro la capacita’ acquisita con lo studio, fossero le carte vincenti per affermarsi.


Ma la televisione ha trasformato il pubblico in una belva famelica che si nutre solo di verità, e la verità è solo quella che accade in diretta; il pubblico vuole partecipare al banchetto e solo con l’esibizione di sentimenti estremi in tempo reale riesce a saziare la sua avidità.
E soprattutto, perché esso possa immedesimarsi, ha bisogno che a soffrire o a gioire per lui sia un uomo senza qualità, nel quale gli venga più facile riconoscere  la medietà che e’ abituato ad abitare.

Così il tratto distintivo della notorietà non è più lo straordinario bensì l’anonimo; anche perché, nel frattempo, la politica, non potendo vendere l’anima al diavolo,visto che non ce l’aveva più, ha finito per vendersi la vita privata. E così le vicende sentimentali, le vacanze, i drammi dei politici hanno preso il posto di quelli degli attori.

Così gli attori sono stati sfrattati dallo “star system” a favore dei politici, i quali a loro volta sono stati sfrattati dalla politica dalle economie internazionali.

Esplorati i postumi da sbronza di TV commerciale, mi soffermo su alcune considerazioni che emergono sommando il pensiero di Freccero alle teorie sui media del noto sociologo Marshall McLuhan.

I media cementificano la collettività come insieme, ed essa diviene il nuovo soggetto ontologico su cui speculare filosoficamente nonché psicanaliticamente. 
L’individuo perde il primato sulla scena, venendo affiancato in proscenio da tutti gli altri individui che con esso compongono la massa, e si vede costretto, nelle analisi dei sociologi, a barattare alcune caratteristiche che sono proprie del singolo essere umano con quei tratti distintivi della collettività in cui è inglobato.

E come l’archeologo utilizza i reperti per ricostruire la storia, il sociologo utilizza i media per indagare il presente ( “Il compito dell’intellettuale è esplorare il massiccio inconscio dell’uomo collettivo“, dice McLuhan).
Perché se è vero che il medium è il messaggio e che la società si modella poi su quel calco, è pur vero che prima ogni nuova tecnologia nasce da una costola dell’intelligenza umana.
E stando a quanto dice McLuhan, ogni tecnologia ingloba quella precedente e simboleggia l’affinarsi nel tempo dell’intelletto umano. 

Eppure in questo abbraccio febbrile da amanti appassionati, medium e società finiscono col fondersi l’uno con l’altra, fino a non riconoscere più i battiti dei rispettivi cuori.
O per dirla in maniera meno romantica e più cinica il medium entra in punta di piedi nella vita della società, come una donna discreta nella vita di un uomo, che diverte, seduce, intrattiene e non pretende, ma che giorno dopo giorno, con lo zelo, l’astuzia e la costanza che solo le donne sanno avere, finisce per ribaltare i ruoli, diventando assoluta signora e padrona, fino a determinare o modificare il destino dell’uomo. O come si dice in napoletano, TRASE ‘E SECCO, E SE METTE ‘E CHIATTO.

Da qui il monito che McLuhan ha profeticamente predicato nei suoi libri: attenzione all’utilizzo che viene fatto dei media, perché da controllori a controllati il passo e’ breve.

Dice McLuhan : “La moderna Cappuccetto Rosso, allevata a suon di pubblicità, non ha nulla in contrario a lasciarsi mangiare dal lupo“, e per questo, aggiungo io,  e’ bene che la nonna non le lasci guardare troppa televisione. 
Perché, sempre McLuhan, se “Quando una nuova tecnologia penetra in un ambiente sociale non può cessare di permearlo fin quando non ha saturato ogni istituzione”, ovvero come per una specie di osmosi tutti i settori della vita vengono permeati da essa, questo vale in particolare per la politica, come gli ultimi vent’anni ci hanno dimostrato.

Ecco, seguendo il ragionamento della fanciullina che diviene matrona, sarebbe bene che il nuovo medium, la rete, che palesemente ha già calcato le scene della politica, venisse canalizzato, inquadrato ed utilizzato dall’uomo prima che diventi irrevocabile l’inversione delle parti e la rete diventi l’ennesima tronfia moglie di un uomo semi-evirato.
La rete, a differenza della tele-democrazia, dovrebbe restituire alla gente l’autonomia di scelta e di giudizio.
E trovandoci ancora in quella fase in cui il media rispecchia la società, prima di riflettersi su di essa, le pulsioni  di una collettività che sceglie  di scegliere e di restituire all’individuo le sue peculiarità soggettive, non possono essere ignorate.
E’ cosi’ che la maggioranza diviene moltitudine; e la moltitudine, a differenza di tutte le definizioni che si sono precedentemente utilizzate per definire la collettività, prevede che i molti si uniscano, si compongano ma non si fondino e non si annullino. 

A mio vedere, l’avvento della Rete, prima di intimorire nelle sue possibili, se non probabili derive, interessa in quanto evidenzia l’emergere di una nuova declinazione della collettività, una collettività che è nuovamente pronta a lottare come lo era la classe, ma con strumenti diversi e soprattutto con una maggiore consapevolezza e coscienza che le permettano di non doversi sottomettere ad un dittatore, ad un leader, ad un unicum.
La moltitudine a differenza del proletariato non e’ composta da braccia che hanno bisogno di affidarsi ad una mente che guidi i loro destini e protegga i loro interessi, ma e’ composta da un insieme di menti che possono contribuire attivamente al destino sociale.
La diffidenza nei confronti del cambiamento, le resistenze che l’uomo ha nei confronti di tutto cio’ che non conosce, non devono intimorirlo e  farlo diffidare nei confronti di un mezzo che se non si sbriga ad usare come tale, finirà per trasformarsi in fine ed utilizzare lui.

Del resto, per concludere con Mcluhan, il nuovo ambiente ingloba quello vecchio. Tutto sta a cercare di vedere il futuro attraverso la dinamica del nuovo ambiente e cercare di evitare di vivere il vecchio ambiente, vale a dire di vivere la propria vita, guardando, diceva lui, nello specchietto retrovisore. Come sarebbe possibile guidare un’autovettura se l’autista guardasse all’indietro nello specchietto retrovisore invece di guardare in avanti?

Ed, a questo proposito mi torna in mente, deformazione professionale, il mito di Orfeo ed Euridice.

Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto,  ebbe in dono da Apollo una lira con la quale comincio’ ad incantare tutte le creature. Ogni creatura amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma Orfeo aveva occhi solo per una donna: Euridice. 
Il destino però non aveva previsto per loro un amore duraturo. 
Infatti, un giorno, la fanciulla per sfuggire alle pressioni di Aristeo, spasimante insistente, si mise a correre in un prato, ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba che la morse, provocandone la morte istantanea.

Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa, decise di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti.
Al suono della sua lira, Orfeo riuscì’ ad incantare tutto l’Ade e fu così che gli fu concesso di ricondurre Euridice nel regno dei vivi, a condizione che, durante il viaggio verso la terra, la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole. 
Purtroppo però, quando Orfeo iniziò a camminare conducendola per mano, s’insinuò in lui il sospetto che non fosse Euridice ma un’ombra quella accanto a lui; e così non riuscì a resistere all’impulso di voltarsi per controllare. 
Nell’istante esatto in cui i suoi occhi incrociarono quelli di Euridice ella svanì, morendo per la seconda volta.

Ecco, non vorrei che per troppo amore e troppa nostalgia, o per la paura di ombre alle spalle, noi facessimo la fine di Orfeo, che voltandosi indietro perse tutto quello che avrebbe voluto davanti.